I grandi maestri

E ancora, è sempre grazie a In morte dello zio Angelo che Pepi Merisio inizia, nei primi anni Sessanta, la collaborazione, durata quindici anni, con il periodico illustrato Epoca. La sequenza di immagini viene elogiata anche dal maestro del fotogiornalismo Henri Cartier-Bresson, presentato nel 1950 proprio da Epoca come il “più grande fotografo del mondo”. È la fotografia di Cartier-Bresson il riferimento linguistico di Merisio, assieme alla lezione dei fotografi della Farm Security Administration come Dorothea Lange e Walker Evans.

Fotografia come documentazione

Il fine di questi fotografi è documentaristico, senza necessariamente escludere l’elemento artistico o, come nel caso delle fotografie di Merisio, il sentimento e l’empatia col soggetto ritratto. Lo stile documentaristico orienta piuttosto la ricerca fotografica in una direzione ben precisa. La composizione formale è messa in evidenza, valorizzata la finezza del tratto, privilegiata la schiettezza dell’immagine all’inquadratura sofisticata, tutte qualità poste al servizio di un obiettivo preciso: parlare nel modo più efficace e veritiero possibile dei soggetti scelti usando il linguaggio delle immagini, col fine di dar vita ad un “racconto fotografico”.

Il racconto fotografico di Pepi Merisio

Per Pepi Merisio “nel racconto fotografico non occorre che la serie di fotografie descriva un avvenimento nel susseguirsi delle varie azioni, quanto piuttosto che la totalità del fatto, il suo ‘tempo’ sia reso con verità. La fotografia non è un fatto filmico, essa non rappresenta un susseguirsi di movimenti, ma di immagini concluse”. Nelle fotografie di Merisio a parlare sono gli sguardi delle persone, i gesti, le situazioni, l’abbigliamento e gli oggetti.

La profonda dimensione umana

In morte dello zio Angelo è un racconto essenziale e non cronachistico, in cui si intrecciano i temi della civiltà montanara e contadina, delle tradizioni religiose e degli affetti e in cui emerge una diversa concezione del tempo, che non è più solo quello cronologico, ma soprattutto quello legato alla dimensione umana. Diviene allora necessario dare testimonianza di ciò che è stato e che non c’è più, mettere la fotografia al servizio di quel “nobile scopo” che secondo Susan Sontag è “scoprire una realtà nascosta, conservare un passato che sta scomparendo”. Ed è ciò che Merisio fa con le sue immagini.

 

“Zio Angelo non ebbe l’annuncio, ma tutti seppero di lui, in Valgandino. Morì d’un colpo una domenica dell’ultimo inverno e il freddo era ancora acuto. Tornava dalla messa grande e gli parve di sentirsi venir meno, entrò in casa, si sedette e rimase così stecchito sulla sedia.

Qualcuno disse che era il freddo, altri parlò d’infarto, nessuno osservò che la vecchia sveglia segnava le undici e quattro minuti. L’ora stabilita lassù per la morte dello zio.

Zio Angelo era un montanaro d’altri tempi, schivo e modesto, con una sua fierezza e dignità tuttavia; gli lasciarono il vestito buono della festa che già indossava, e lo misero nel suo letto senza addobbi neri coi lustrini che sentono di chiuso.

Dalla finestra aperta il freddo non tardò ad entrare e un po’ di sole scialbo e il vento, con il profumo congelato della terra, che zio Angelo aveva lavorato, giorno per giorno; le sue mani nodose, ora, su quel letto, biancheggiavano grosse, legate dal rosario.

Vennero in tanti a vederlo. Forse tutti, perché tutti lo conoscevano in questo piccolo paese.

Lo accompagnarono al cimitero nella neve in lunga processione; c’erano anche i bambini dell’asilo ed i tre vecchi confratelli, col cappello in testa per il gran freddo. La moglie dello zio stette poi lunghe ore sola nella stanza vuota, sola con i ritratti dei suoi vecchi e con la fotografia dove lei è insieme allo zio nel giorno delle nozze. È una fotografia ingiallita, con il vetro rotto. Sotto c’è un ramo d’olivo.”

Da Terra di Bergamo, vol. 2, 1969, pp. 147-149

A cura di Jennifer Coffani