Un caso (quasi) unico al mondo
Le undici chiese monolitiche sono ipogee: la struttura è scavata nella roccia di tufo vulcanico, ricavandone un blocco unico, in genere rettangolare. La struttura di ciascuna chiesa ha quattro facciate, portici, interni a più navate decorati con pitture murali e bassorilievi di notevole pregio artistico. Esistono altre chiese ipogee nell’area circostante e alcune anche in Eritrea, ma non come insieme monumentale strutturato. L’unico altro esempio di un complesso di templi ricavati isolando blocchi interi di roccia si trova a Ellora, in India. Si tratta di 34 templi edificati tra il V e il X secolo, attribuibili a buddhismo, brahmanesimo e giainismo, patrimonio UNESCO dal 1983.
Il primo viaggiatore a raggiungere Lalibela è il gesuita portoghese Francisco Álvarez che nel 1540 redige una cronaca in cui descrive così quanto vede: “Non mi affanno a scrivere di più su questi edifici, perché mi pare che non sarei creduto se ne scrivessi ancora… Ma giuro su Dio, nel cui potere io sono, che tutto ciò che ho scritto è la verità” (The Prester John of the Indies, traduzione di C.F. Beckingham e G.W.B. Huntingford, Cambridge, Hakluyt Society, 1961, p. 226). Dovranno trascorrere oltre tre secoli perché se ne trovino brevi cenni in altri scritti; mentre risale al 1939 il primo studio corredato da rilievi del sito ad opera dell’archeologo Alessandro Augusto Monti della Corte e del pittore Lino Bianchi Barriviera.
L’origine tra storia e leggenda
La costruzione del singolare complesso monumentale si perde nella leggenda. La tradizione vuole che il sito fosse originariamente denominato Roha, l’antica capitale del regno d’Etiopia. Il sovrano Gebre Mesqel Lalibela, membro della Dinastia Zaguè, che governò l’Etiopia tra la fine del XII secolo e l’inizio del XIII secolo, avrebbe avuto un sogno premonitore durante l’infanzia e una visione in età adulta, durante un pellegrinaggio a Gerusalemme, in cui Dio gli avrebbe chiesto di costruire delle chiese a Roha, poi ribattezzata con il suo nome. Secondo la leggenda re Lalibela avrebbe fatto costruire gli edifici in vent’anni, con enormi sacrifici, arrivando a vendere i propri figli come schiavi per riuscire a finanziare l’impresa. Il dato storico sembra dare alcuni riscontri precisi: durante il suo regno Lalibela dovette fronteggiare la minaccia di invasione musulmana dalle coste del Mar Rosso e dall’Egitto e la città di Gerusalemme non era raggiungibile dai pellegrini cristiani. Il sovrano creò quindi una nuova Gerusalemme con la ferrea volontà di segnare il territorio con una toponomastica ricalcata dal modello biblico: i luoghi sono chiamati Monte Tabor, il fiume Giordano, le chiese sono intitolate al Salvatore del mondo, a Maria, alla Croce, alla Trinità, e all’interno si trovano le ricostruzioni delle tombe di Adamo e del Santo Sepolcro. Caduta la dinastia Zaguè nel XIII secolo, la capitale del regno etiopico fu spostata da Roha e la località, divenuta sacra, è meta da allora di pellegrinaggi per la chiesa copta, ramo risalente allo scisma dalla chiesa di Roma, in seguito al Concilio di Calcedonia (451).
La riscoperta internazionale
Nel 1967 Lalibela in occidente è ancora un luogo quasi sconosciuto. Pochi anni prima le autorità etiopi avevano segnalato il grave stato di degrado del complesso alla comunità internazionale, trovando nell’International Fund for Monuments di New York l’interlocutore capace di organizzare e finanziare i restauri. Nel giugno del 1966 l’architetto bergamasco Sandro Angelini è inviato ufficialmente a redigere un progetto di intervento e tra dicembre 1966 e fine marzo 1967 coordina la prima fase di intervento di recupero del sito. Il programma prevede opere di consolidamento, protezione, liberazione di sovrastrutture, recupero delle decorazioni pittoriche. Lo staff di Angelini è composto da Marialuisa Angelini, architetto assistente, Giulio Bonorandi, ingegnere, Francesco Salvi, restauratore architettonico, Giuseppe Arrigoni, restauro pittorico, Guy Boghossian, per l’amministrazione, e 400 operai. Fausto Asperti li affianca per documentare con campagne fotografiche l’andamento dei lavori di restauro; farà lo stesso nel 1970, durante la seconda fase dei lavori.
Lalibela “fase 1”
La “fase 1”, come viene denominata ufficialmente, porta a rilevanti risultati e conclusioni: le chiese sono state edificate nel corso di due secoli. La motivazione dell’originale tecnica a scavo sembra sia legata all’economicità del lavoro. Data la scarsa disponibilità di materiale da costruzione, le abitazioni in quell’area sono costruite con sassi e un impasto di terra, sterco e paglia, e sono dunque particolarmente esposte al dilavamento durante i periodi di intense precipitazioni. Per la rilevanza degli edifici di culto si preferì probabilmente il tufo, in grado di garantire stabilità nel tempo.
I lavori di restauro portano a ulteriori scoperte: nella chiesa di Biet Mercoreos sono rinvenuti frammenti di vasellame di origine indiana e catene attaccate a una parete: questi ritrovamenti fanno supporre ad Angelini che l’edificio in origine fosse il palazzo reale di re Lalibela. E ancora, intorno alle chiese, raggruppate in due aree distanti tra loro circa 250 metri, si dipana una rete di ‘trincee’ di particolare interesse artistico: la montagna è scolpita, con tombe, cunicoli, trincee utilizzate per il drenaggio delle acque, o a scopo difensivo, o per le processioni.
Angelini denuncia di aver incontrato difficoltà operative legate alla specificità e unicità del sito; gli interventi basati su comparazioni risultavano impossibili, costringendo gli esperti a intervenire con soluzioni tecniche particolarmente innovative e originali.
Patrimonio UNESCO
Le spedizioni coordinate dall’architetto Angelini e finanziate dall’International Fund for Monuments di New York portano a un rinnovato interesse per il sito di Lalibela, che ha il suo apice con l’inserimento nel patrimonio UNESCO con la seguente motivazione: “per l’originalità della concezione architettonica del monumento, scavato nella roccia, emerge dalla penombra di una fossa e resta compreso nella massa del rilievo montuoso, costituendo una creazione eccezionale, riconosciuta e segnalata come tale da tutti i viaggiatori a partire dai pionieri che furono, nel XVI secolo, padre Francisco Álvarez o Michele de Castagnoso. […] Il complesso di Lalibela offre una testimonianza eccezionale relativa alla civiltà dell’Etiopia medievale e post-medievale”.